C’è la violenza fisica subita dal corpo, l’aggressione verso la vittima, lo sfregio nei confronti dei valori morali.
Poi c’è la violenza che porta conseguenze non solo al singolo, ma si propaga ai familiari, alla collettività.
E un gesto folle apporta alla comunità paura e rabbia.
Una ferita nell’anima non sparge sangue, non prevede un funerale, non contempla lacrime versate.
Lacera lo spirito, si incunea con sofferenza tra la pelle e il cuore, dove non ci sono difese, dove il dolore grida in silenzio tristi risonanze emotive.
E non è più la signora a morire, ma la speranza della popolazione, il sogno di padri per i loro figli, delle madri nel crescere i propri pargoli, il seme per un futuro migliore.
E il frastuono dell’intimo sentire si propaga come una nube di pianto fino ai foggiani che si sono trasferiti in altre regioni.
E le scorie di un atto scellerato raggiungono i sentimenti di coloro i quali dimorano altrove, instillando una sensazione strana, irrazionale, contraddittoria: l’essere fuggito dalle tue radici e non essere restato ad aiutare i tuoi concittadini nel contribuire ad alzare il tasso di civiltà.; in un contrasto di sensazione tra l’aver studiato fuori e l’essere rimasto in un luogo già socialmente autosufficiente, con un buon grado di civiltà, che non aveva bisogno della tua “cultura” e l’aver dovuto fare ritorno al tuo ramo, come le foglie in primavera che, dopo essersi staccate in autunno, fanno capolino sull’albero che le ha donato la vita.
In un dilemma che ferisce e lascia cicatrici profonde.
E la lama del rimpianto affonda nei rimorsi gocce di impotenza.