Le Olimpiadi sono la festa dello sport mondiale, l’apoteosi per migliaia di atleti che con enormi sacrifici puntano a questo evento quadriennale per ritagliarsi quei minuti di notorietà negati a discipline, se non minori, addirittura sconosciute e ignorate ai più per quattro anni, puntando a una vittoria o a un piazzamento sul podio che, almeno per un giorno, possa loro consegnare quella gloria che “colleghi” più fortunati degli sport più noti si portano dietro tutti i giorni per tutto l’anno.
Ma c’è il rovescio della medaglia. Sono spesso e volentieri proprio le discipline meno note che sono in balia agli arbìtri arbitrali, ci si passi il gioco di parole. Nella boxe, come nel judo, nella scherma, nella lotta, nei tuffi, nel nuoto sincronizzato, nella ginnastica artistica, per citarne solo alcuni, almeno al neofita che guarda solo in occasioni simili queste gare, l’impressione che gli sforzi e l’impegno degli atleti sia secondario rispetto ai “disegni” di chi giudica è forte. Inutile dire poi che ad atleti cinesi (nei tuffi) o americani (nella ginnastica come nel nuoto sincronizzato), per esempio, solo per il credito vantato da ragazzi e ragazze effettivamente dotati di straordinario talento, i punteggi delle giurie partono con una particolare generosità di defoult e atleti di altre nazioni, soprattutto se “minori”, per tentare di scalzarli dal podio sono costretti a fare la gara della vita.
In questo senso all’Italia nell’Olimpiade di Francia pare non ne vada una giusta nel rapporto con i giudici del CIO. Sintomatiche in questo senso la semifinale prima e la finale terzo/quarto posto poi della nostra Odette Giuffrida (judoka – categoria 52 kg) sul tatami dell’Arena del Campo di Marte. In entrambe le volte sconfitta per squalifica dallo stesso direttore di gara (in questo caso “direttrice”), per motivi ignoti ai più, compreso gli esperti coadiuvatori dei telecronisti Rai o Sky, figurarsi all’ignaro telespettatore italiano che invece (e ingenuamente o forse per ignoranza) ha visto molto più attiva e meritevole la nostra atleta rispetto alle avversarie. Stessa cosa successa nella boxe, con sconfitte decretate ai primi turni che hanno lasciato molto perplessi, compreso quella della nostra Irma Testa, partita per Parigi in cerca di un alloro olimpico dopo il bronzo di Tokyo e fermata al primo turno dalla sconclusionata e veemente foga dell’avversaria più che dai suoi pugni. Per non dire di quanto avvenuto sulle pedane della scherma, nello stupendo impianto del Grand Palais dove, soprattutto nel fioretto, nonostante l’ausilio delle riprese alla moviola, gli arbitri hanno fatto il bello e il cattivo tempo, sottraendo stoccate valide e regalandone altrettante immaginarie. I più penalizzati sono stati, manco a dirlo, le nostre schermitrici e i nostri schermidori. La Errigo e la Favaretto nel femminile e Marini e Macchi nel maschile, per citarne solo alcuni, sono stati evidentemente danneggiati alla stoccata decisiva da errori che si fa davvero fatica a non giudicare “pilotati” se non addirittura in malafede. A tal punto che alcune agenzie di scommesse hanno restituito la puntata sulla vittoria in finale del fioretto individuale di Filippo Macchi, sconfitto sul 14 pari nonostante avesse per ben tre volte, con ogni probabilità, inflitto la stoccata decisiva al coreano Ka Lang Cheung, stoccata invertita dai due arbitri (udite udite) asiatici come il vincitore, al terzo e ultimo assalto contestato.
Ma se ciò non bastasse nei quarti di finale della pallanuoto maschile fra Italia e Ungheria si è toccato veramente il fondo (ovviamente a discapito del nostro “settebello”). Arbitrata da un inesperto montenegrino (nazione la cui squadra era stata umiliata ed eliminata pochi giorni fa dai nostri pallanuotisti per 11-9), designazione contestata sin da subito (ma inutilmente) dalla nostra Federazione, sul gol del pareggio per 3-3 del nostro Condemi, ecco un’invenzione al VAR da far impallidire persino quelle di Nasca durante Foggia – Lecco. Senza che nessuno, ungheresi per primi, avesse mosso ciglia, il direttore di gara vede al video il tiro di Candemi che sull’abbrivio del gesto finisce con la mano sul volto del suo marcatore e la giudica nientemeno che azione violenta volontaria, decretando l’annullamento della rete, il rigore per gli ungheresi e l’espulsione di un attonito Candemi per 4 minuti. Si passa dal possibile 3-3 al 2-4 Ungheria, con l’Italia costretta a giocare per mezzo tempo in 5 contro 6, che nella pallanuoto è una inferiorità pesantissima. Ora, non bisogna essere esperti di pallanuoto ma avere semplicemente buonsenso per valutare l’azione del nostro giocatore come circostanza di gioco naturale e involontaria (oltretutto senza arrecare danno alcuno all’avversario), vista e rivista mille volte durante partite di pallanuoto. Eppure l’arbitro slavo la vede così, regalando ai magiari, di fatto, un’immeritatissima semifinale olimpica. Vero è che l’Italia in un impeto d’orgoglio riesce poi a pareggiare miracolosamente e a portarsi addirittura in vantaggio per 7-5 nell’ultima frazione, ma paga sul finale l’enorme sforzo psico-fisico esercitato nel dover contenere per lunghissimo tempo gli avversari con l’uomo in meno, finendo poi per pareggiare 9-9 e perdere ai rigori finali, vedendosi sfumare l’occasione di lottare per un oro (oltre che per il podio) che manca a questa plurivittoriosa disciplina da Barcellona 1992.
Morale della favola? Detto che nell’era dell’intelligenza artificiale sarebbe ora di rendere meno “naturalmente umana” la discrezionalità arbitrale in tali sport, servendosi in maniera più concreta degli ausili tecnologici, rimane evidente perchè la regina delle discipline olimpiche rimane l’atletica leggera. Lì gli arbitraggi contano zero. Vince sempre il più forte e a decretarlo non è l’uomo, ma lo spazio (il metro) e il tempo (il cronometro), due giudici invece “naturalmente imparziali”.