Diciamo la verità, noi italiani oramai dai nostri governanti siamo abituati ad aspettarci di tutto. L’epopea di tangentopoli, che nelle speranze di noi tutti – ingenui – avrebbe dovuto spazzar via corruzione e malcostume dai palazzi del potere, di fatto ha gettato via il bambino con tutta l’acqua sporca, aprendo la strada con l’avvento della “famigerata” Seconda Repubblica a improvvisati parveneu di tutti i generi che, travolti da insolita passione, hanno trovato la porta aperta non solo per un’inaspettata e subitanea carriera a Montecitorio o a Palazzo Madama, ma addirittura per ricoprire le più alte cariche dello Stato.
Non facciamo nomi, tantomeno esempi, perchè questo vuole essere semplicemente un articolo di costume. Tuttavia d’improvvisati rivestiti da politici di professione – più o meno maldestri – ne abbiamo visti sfilare a frotte in questi decenni, di ogni specie e colore, inesauribile fonte di sberleffo per comici e umoristi di professione che, devotamente, continuamente ringraziano.
Cosa ancor più paradossale è che insieme a questa “nuova stagione”, tolto l’esilio forzato di Bettino Craxi e la condanna di Sergio Cusani (dirigente del gruppo Ferruzzi) – forse gli unici ad aver pagato il conto di quella stagione di tangenti facili insieme a chi preferì il suicidio al “tintinnare delle manette” – al male si è aggiunto il peggio. Così se prima si “rubava” per finanziare i partiti (tutti, come dimostrò lo stesso Craxi chiamando a correità l’intero Parlamento in quello storico discorso alla Camera del 3 luglio del 1992), poi si è arrivati a “rubare” per interesse personale, come una chilometrica sequela d’inchieste giudiziarie ha dimostrato da quegli anni a oggi, con l’aggravante che almeno prima la statura politica di chi “guidava il vapore” era di ben altra capacità e livello.
Se Borrelli, Davigo, Colombo e l’eroe del tempo, Antonio Di Pietro, speravano a colpi di arresti e inchieste di fare dell’Italia una sorta di nuova Norvegia, alla fine l’hanno ridotta, loro malgrado, a quello che siamo diventati in questi anni, qualcosa molto più simile a una Repubblica sudamericana che a un integerrimo Paese nordeuropeo.
E dove sono nate le telenovelas se non in sudamerica? Potevamo dunque farci mancare la penosa sceneggiata di un Ministro che Urbi et Orbi dichiara alla Nazione la sua “sbandata” per una sedicente e avvenente dottoressa incline alle registrazioni ed al ricatto, con tanto di lacrimevoli scuse alla moglie in diretta al TG1? Una “signorina” che ha messo sotto scacco e ridotto alla berlina il nostro Governo di fronte a tutto il mondo che, sui più prestigiosi giornali, dall’America alla Russia, ancora sghignazza sotto i baffi per cotanto umiliante scempio.
Il bello poi (si fa per dire) è che il protagonista di questa vicenda da rotocalco rosa soprassiede al dicastero della Cultura, di cui l’Italia dovrebbe essere la culla, dopo che già aveva dimostrato la sua “attitudine all’incarico” affermando candidamente in un “dotto intervento” a Taormina che Cristoforo Colombo si era avventurato ad ovest delle Colonne d’Ercole seguendo le teorie di Galileo Galilei, nato giusto un secolo dopo di lui, ignorando oltretutto che la sfericità della terra l’aveva già ipotizzata Pitagora cinquecento anni prima di Cristo.
Che dire, questo evidentemente ci meritiamo come “cultura”, e a nulla valgono le tardive dimissioni del Ministro, di cui non facciamo il nome per pudore, nostro più che suo. Il danno è stato fatto e a nostro avviso è forse peggio per la nostra immagine di quanto sarebbe stato scoprire l’ennesimo reato di corruzione a cui più nessuno avrebbe fatto caso.
Un nome però lo vogliamo fare a chiosa di questa squallida vicenda che, attenzione, non riguarda un partito o una coalizione di governo, ma è cartina di tornasole di quello che oggi è il livello morale e culturale di chi andiamo a votare (senza nemmeno poterlo scegliere personalmente, oltretutto) in questa sorta di Terza Repubblica che si è formata spontaneamente, un po’ come la gramigna, senza che nessuno l’abbia voluta o fondata. Enrico Berlinguer, in un’intervista rilasciata a Scalfari di Repubblica il 28 luglio del 1981, lanciò l’allarme della “questione morale” in politica. L’articolo titolava “Dove va il PCI?”, ma oggi il vulcanico direttore del quotidiano romano l’avrebbe titolato “Dove va l’Italia?”, ignorando allora – entrambi – che poi il problema non sarebbe stato solo la morale in politica, ma addirittura il comune senso del pudore.