Underdog: una storia oltre i limiti

Nel mondo dello sport ci sono persone che lasciano un segno indelebile. E non solo per le loro capacità tecniche o atletiche. Magari hanno vinto poco o nulla, ma la loro autenticità, la capacità di sfidare e superare i limiti e il loro andare controcorrente rappresentano per molti quell’ideale di libertà che troppo spesso nello sport è soggiogato da altre logiche. Figure polarizzanti, capaci di essere amate incondizionatamente quanto aspramente criticate, dileggiate.

Noi a Foggia ne sappiamo qualcosa. Chi più di Zeman può far parte di questo gruppo di persone speciali? Con il suo calcio votato all’attacco e allo spettacolo, perché in fin dei conti sono i tifosi coloro ai quali bisogna rendere conto. Capace di far emergere il suo stile in una realtà come la nostra, dove i mezzi a disposizione e le risorse non erano certo quelle delle grandi squadre della Serie A. Eppure, per quel breve periodo, anche i più forti tremavano al sol pensiero di dover affrontare Franco Mancini e compagni. Non affrontavano solo undici calciatori o logici tatticismi. Affrontavano un’idea, un modo di essere, la passione generata e roboante di una intera comunità.

Ma questa è una rubrica che parla di NBA, di palla a spicchi. E quando pensiamo ad un giocatore di basket l’immagine che ci viene per la mente è quella di una persona alta e imponente che domina fisicamente il parquet.
Facciamo reset! Nulla di tutto questo. Qui parliamo di un giocatore di 183 cm. Basso, anzi bassissimo per i canoni di questo sport, che non doveva essere li tra i giganti. Eppure è diventato uno dei giocatori più dominanti. Fonte di ispirazione per tutti quelli che non credono di riuscire in qualcosa, sfida costante a superare i limiti, non solo fisici.

Allen Iverson, “The Answer” come viene soprannominato. “La Soluzione”, tanto sul campo da basket quanto a livello culturale e sociale. “La risposta” alle domande più profonde su cosa significhi essere autentici, ribelli e di successo contro ogni previsione.
Cresciuto in una delle zone più difficili della Virginia, ha dovuto affrontare la povertà, la criminalità e le tensioni razziali. Eppure nulla di tutto ciò è riuscito a fermarlo. Giocare contro avversari più alti di 20 cm e 30 kg più pesanti non era solo questione di abilità: era una questione di orgoglio e testardaggine. In questo mondo di giganti conta anche il cuore.

LA SOLUZIONE PER I PHILADELPHIA 76Ers

Nel 1996, i Philadelphia 76ers si trovavano in una delle peggiori crisi della loro storia. Lontani dai fasti degli anni ’80 quando Julius Erving guidava la franchigia al titolo. Cercavano disperatamente una stella, un giocatore che portasse riportarli ai vertici della NBA. E la risposta a quella ricerca fu Allen Iverson.

Scelto con la prima chiamata al Draft non ha portato solo talento (in NBA la squadra peggiore della stagione precedente ha il diritto di poter mettere sotto contratto il giocatore più forte che viene dalle squadre universitarie). Ha portato una nuova speranza. Fin dal suo debutto, si è dimostrato il tipo di giocatore capace di poter cambiare le sorti di una squadra con la sua sola presenza. Con il suo gioco esplosivo, la sua velocità e la capacità di segnare da ogni posizione, Iverson era “la risposta” perfetta ai problemi dei 76ers. Ha trasformato una squadra mediocre in una contender, guidandola fino alle Finals del 2001 contro i Los Angeles Lakers. Era più di un giocatore: era l’uomo che aveva dato un’identità, il leader che poteva portarli a sfidare le squadre più forti della lega.

LA RIBELLIONE CONTRO GLI STERIOTIPI

Non è mai stato solo un giocatore di basket. Fuori dal campo, era un’icona culturale, un simbolo della cultura hip-hop che stava rapidamente diventando mainstream negli anni ’90. Questo portò a delle frizioni con la NBA, organizzazione che stava cercando di mantenere un’immagine più istituzionalizzata e“pulita”. Iverson, con i suoi tatuaggi, le trecce e il suo abbigliamento oversize, rappresentava l’opposizione a tutto ciò. Era il volto di una nuova generazione che rifiutava di conformarsi alle regole non scritte della lega.
Nel 2005, la NBA introdusse un codice di abbigliamento più rigido, proprio per frenare l’influenza di Iverson e dei giocatori come lui che abbracciavano uno stile più urbano e ribelle. Come pensate che sia andata a finire?

La sua famosa conferenza stampa del 2002, in cui discusse dell’importanza che dava agli allenamenti (“We talkin about practice!”), è diventata leggenda per ciò che simboleggiava. Iverson non era un ribelle per il gusto di esserlo. Si rifiutava di accettare le aspettative imposte da altri. Lui giocava il suo gioco e viveva la sua vita alle sue condizioni. Questo lo ha reso figura di riferimento per chiunque abbia mai sentito la pressione di conformarsi alle norme sociali.

LA RISPOSTA PER I FAN

Per molti fan era, e continua ad essere, simbolo di lotta e determinazione. Incarna la figura dell’underdog, colui che non avrebbe dovuto mai avere successo secondo le convenzioni, ma che invece riusciva a sfidare ogni pronostico. Iverson non ha mai dimenticato le sue radici, portando con lui la grinta di chi ha dovuto lottare per tutto.
Per i tifosi non è solo una stella NBA: è uno di loro. Il ragazzo che viene dal nulla e che ce l’ha fatta. In un mondo dove le star sembrano irraggiungibili, Iverson era umano. Era imperfetto, aveva i suoi alti e bassi, ma non smetteva mai di combattere. E questa sua vulnerabilità, unita alla sua forza interiore, ha fatto si che tantissime persone potessero identificarsi a lui, anche al di furi del mondo del basket.

Non ha mai vinto un titolo NBA, ma il suo impatto va ben oltre le vittorie e le statistiche.
È colui che ha sfidato i limiti. È diventato simbolo di autodeterminazione: qualcuno che, nonostante gli ostacoli, ha tracciato la propria strada. Per questo “The Answer” non è solo un soprannome. È un modo per ricordare che, qualunque sia l’ostacolo o la sfida, c’è sempre una risposta.

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